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L’economia

Giuseppe Mele
 

Oristano ha una certa importanza nell’economia del Regno in virtù di alcune peculiarità: la posizione intermedia lungo l’asse longitudinale dell’isola, il ruolo di fulcro economico di un’area fertile e popolata, la prossimità di uno scalo commerciale ampio e riparato dai venti, le saline regie di Capo Mannu e le ricche peschiere impiantate negli stagni salmastri del suo circondario.

Essere l’unica città situata sulla via di comunicazione interna più importante e trafficata, la strada reale che costituisce il percorso obbligato per chi si sposta tra Cagliari e Sassari, è già di per sé un vantaggio. Di maggiore portata è però la funzione di mercato di raccolta e di scambio delle derrate agricole prodotte nell’entroterra pianeggiante e collinare. Come le altre città regie, e cioè non infeudate a un signore ma appartenenti alla Corona e governate da un consiglio civico, Oristano gode di particolari privilegi, volti a garantire che la compravendita dei manufatti e dei frutti della terra sia consentita esclusivamente all’interno delle mura urbane. La rigidità di queste disposizioni va però attenuandosi col tempo e nel primo Seicento il monopolio delle operazioni commerciali lascia intravedere ampi segni di cedimento. A mostrarlo sono le istanze avanzate nei parlamenti dai rappresentanti dello stamento reale, che si pongono l’obiettivo di arginare la diffusione delle botteghe e del commercio ambulante nei villaggi dell’isola.

Di norma le eccedenze produttive delle aziende agricole e delle famiglie contadine destinate al mercato oristanese sono acquistate dai mercanti (per lo più liguri, catalani e talvolta sardi residenti a Cagliari e Oristano) che si incaricano poi di esportarle verso Barcellona, Valencia, Genova e Livorno. Si tratta prevalentemente di grossi quantitativi di granaglie, in prevalenza frumento, e in minor misura di formaggi, pelli, legumi, carne salata, barili di tonno, anguille salate e bottarga. Le stesse rotte commerciali utilizzate per inviare i prodotti sardi nelle piazze mediterranee sono seguite, ma questa volta in senso inverso, dalle mercanzie importate da oltremare: sopratutto tessuti, poi oggetti in metallo, vasellame, olio, spezie, ecc. La distribuzione di queste merci non si ferma però alla città, ma in qualche misura raggiunge anche i centri del circondario e dell’interno per essere vendute nelle botteghe gestite da piccoli mercanti e dagli ambulanti.

Oltre al fiorente mercato granario, ciò che caratterizza più di ogni altra cosa Oristano dal punto di vista economico è la concentrazione, nel suo territorio, dell’attività di pesca nelle acque salmastre. Si tratta di una risorsa importante, perché consente di commercializzare un prodotto, fresco o conservato in vari modi, che può essere consumato anche nei numerosi giorni durante i quali, a causa dei precetti religiosi, non è consentito cibarsi di carne. Lo sfruttamento delle peschiere rappresenta una fonte di reddito tra le più ambite per gli investitori locali, che per assicurarsela sono soliti costituire delle società con i ricchi capitalisti liguri residenti in città e a Cagliari. Nelle migliori stagioni di pesca del Seicento gli appalti delle peschiere dell’Oristanese rendono all’erario un introito complessivo di circa ventimila lire.